❝Di quell’epoca ricordo con lucidità incredibile un altro periodo triste e penoso. L’epidemia della “spagnola”. Fu anch’essa un’immane tragedia. Si trattava di una influenza maligna che colpiva grandi e piccini, ma infieriva con maggiore violenza sui giovani, che mieteva senza pietà. Intere famiglie furono decimate. Le campane suonavano a morto da mane a sera. Questo, aggiunto alle ferali notizie che giungevano dal fronte, aveva creato un’atmosfera lugubre. A casa mia la prendemmo tutti. Ricordo che eravamo a letto tutti nella camera dei miei genitori: la mamma e noi cinque figli, compreso il piccolo Biagio di pochi mesi. Papà, con la febbre altissima, era costretto a stare in piedi, per curarci. Allo scoppiare dell’epidemia, erano stati distribuiti alle famiglie dei medicinali e una grande quantità di limoni. Ognuno si curava da sé. Nessuno usciva di casa, neanche i medici, che d’altronde non sarebbero stati in numero sufficiente al fabbisogno. Ricordo, a casa mia, lenzuola bagnate di disinfettante appese ai balconi al posto delle tende. Erano misure precauzionali; ma tutto si dimostrava inutile. Morivano centinaia di persone al giorno. Il Comune aveva noleggiato carri trainati da buoi, con personale che trasportava rustiche casse da morto, prelevava i cadaveri dalle case e si occupava del seppellimento. Pareva di essere tornati al tempo della peste di Milano. Di tanto in tanto, urla raccapriccianti, provenienti dalla strada o dalle case vicine, annunziavano qualche altro lutto. Noi, per grazia di Dio, la superammo tutti quanti. Quando, più tardi, venni a sapere che entrambe le figliole del Direttore Didattico, le amichette della mia maestra, erano morte di spagnola, rimasi sconvolta. Non volevo crederci; mi rifiutavo di accettare la realtà dei fatti. Mi pareva impossibile che quelle due belle ragazze, cosi sane, floride, gaie e piene di vita, fossero sparite sotto terra. Le ricordo tuttora con le loro camicette chiare, i nastri di velluto sui capelli, affacciate al balcone, mandare baci con la Punta delle dita ai loro ufficialetti che passavano per la strada. Tutta la colonia palermitana fu in lutto per loro. La mia maestra si vesti di nero. Io, non volli più andare in quella casa. Poi, finalmente, un bel giorno, calò il sipario sulla duplice, immane tragedia. L’epidemia cessò. Ci fu l’Armistizio; la guerra finì e i superstiti tornarono a casa, dove moltissimi trovarono lutto e dolore. Cosi, lasciammo Corleone. Se, alla partenza del treno, la mamma avesse voluto ancora lanciare dei sassi, per lasciarsi indietro il ricordo di quei quattro lunghissimi e tristi anni, non le sarebbe bastata un’intera pietraia.❞
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(dall’autobiografia di Filippina Mincio, conservata presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano)
scheda competa
Una casalinga siciliana segue il marito in Libia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, la prigionia di lui e il vacillare delle certezze che fino ad allora avevano accompagnato un’esistenza borghese, la costringeranno ad affrontare tanti pericoli che, alla fine, faranno di lei una donna.